Attitudine punk, mente ironica e schietta, ma cuore consapevole e positivo. Non a caso Patrizio Maria augura sempre ai suoi amici e fan di vivere a colori, di vivere i colori, di contentarsi della bellezza nelle piccole cose che ci circondano. Il suo è un pragmatismo talvolta sognante talvolta scanzonato, ma sempre vicino ai destinatari dei suoi testi: noi che lo ascoltiamo. Nessun filtro o distacco protettivo nella sua musica: ne sono testimoni gli anni passati letteralmente immerso nell’attività live, a contatto col pubblico e con i più grandi maestri della musica italiana.
Patrizio Maria non ha intenzione di fermarsi, di smettere di imparare e di cercare il confronto con chi lo ascolta. Per questo motivo lo abbiamo intervistato. Conoscete meglio insieme a noi questo talento italiano!
Colori, Converse e mirtilli. Ti va di stupire i nostri lettori e spiegare cosa hanno in comune queste parole apparentemente sconnesse fra di loro?
Vita, passione, sapore. Mi piace contaminare tutto e godo nel vedere cose mescolarsi. Musica, letteratura, cinema, pittura, teatro, cibo, shopping, punk, Irlanda, mimo, fumetti. Nel colore risento il profumo di mia madre, come pennellate di luna che leccano le nuvole. Il cammino, in cerca di un Dharma continuo, di un qualcosa di sconosciuto, da provare. La metafora della vita, camminare, correre con passi svelti e colorati, con leggerezza andare oltre. Dividere un frutto di bosco piccolissimo e rendere partecipe a questo banchetto chi ami e chi stimi. Potrei anche invertire e cambiare i nomi,ci sono similitudini ed analogie vicine che si tengono come il cappio al collo.
Sei stato scoperto dal grande Ivan Graziani, per il quale hai aperto i tour Malelingue e Fragili Fiori, fino a collaborare con moltissimi altri artisti, da Mango a Little Tony a De Gregori – molto diversi fra loro. Cosa è cambiato in te a livello di consapevolezza? Queste esperienze si possono definire una mera gavetta o c’è qualcosa in particolare che hai riportato poi nella tua musica?
Diciamo che Ivan è stato bravo a capire e a rendermi meno timido. Se avessi continuato a nascondermi neanche Sherlock Holmes mi avrebbe mai scoperto. Lui è stato attirato dalla mia luce quando ho deciso finalmente di uscire dal buio della cameretta di casa. Sono state esperienze surreali e magiche. Tutto è accaduto improvvisamente ed in maniera molto spontanea. Credo di essere stato molto fortunato: erano anni dove o andavi in tv o facevi tanti concerti. È stata una gavetta durissima, irresponsabile per alcuni versi ma piena di scoperte e di dolcezza. Davvero, credo di avere colto gli ultimi anni buoni dove la gavetta si fa cantando davanti alla gente. Senza talent e programmi costruiti sugli applausi. Lì, se non piacevi, nessuno di batteva le mani. Nella mia musica ho portato sempre Patrizio: sono uno scorpione testardo che ama sbattere il grugno sulle cose, sono di attitudine punk e non mi piacere dovere scegliere tra un tatuaggio ed una cicatrice.
Quali sono gli autori più importanti che ti hanno ispirato a livello di scrittura di testi? Ricordi quali autori letterari possono aver influenzato la scrittura dei tuoi due album India Londinese e poi Banana Confused?
Mi piacciono molte cose. Amo il punk, il folk della west coast di Neil Young, amo le pazzie e i riff dei Ramones, Paul Simon, ho sempre ascoltato questa musica, ma se qualcosa ha ispirato la mia scrittura sono stati i movimenti letterari ed artistici della passata modernità. Il Dadaismo, la Patafisica, il Surrealismo. In ogni caso poi tutto va rapportato alla tua vita e quello che vivi e respiri. Io credo di non avere mai scritto una storia partendo dalla fiction. Mi piacciono le storie vere, che conosco e calpesto. Voglio parlare della mia vita e della vita di chi mi gira intorno.
Che rapporto hai con l’italianità? Al di là della lingua utilizzata per fare musica, pensi che il tuo lavoro possa essere apprezzato e compreso anche all’estero?
Ho suonato spesso in Francia e in Inghilterra. Io amo la lingua italiana, credo ci voglia proprietà di linguaggio e molta pazienza per giocare metricamente con le parole. Ma non dobbiamo sottovalutarci. La nostra lingua è molto bella. Gli autori italiani hanno un linguaggio cinematografico, quello che piace a me: puoi vedere le scene, sentire profumo o sofferenze, risate. Il rock, il punk sono difficili da fare coincidere con la nostra lingua, ma nulla è impossibile. Ma poi ognuno dovrebbe costruire il proprio rock, il proprio punk, usando i propri metri di indagine, superando gli standard e quei dettati programmati ad arte. Io voglio essere un movimento, il mio, e cercare di essere un mio marchio di fabbrica, senza imposizioni compositive e regole assurde, del tipo quello è rock, quello è blues. Molti autori classici sono più rock di alcuni americani in canotta. Credo in ogni caso di avere la fortuna di scrivere in maniera internazionale, come fonetica, come voce e come melodie e costruzioni armoniche. Ma poi anche Italia è estero: ogni cento metri cambia un dialetto e questa cosa è straordinariamente psichedelia pura. Ho scritto molti testi delle mie canzoni, soprattutto di Banana Confused, facendo scene di fumetti per poi tradurre tutto in parola, versi, gargarismi! Ho la erre internazionale come un dandy sfacciato di provincia, con chiodo, dr.martens e converse e pennarelli spray colorati.
I tuoi maggiori singoli (Io c’ho l’ansia, Sociopatica, Ipocondriaco) portano il nome di alcuni disagi entrati nel vocabolario popolare proprio perché generalizzati. L’impressione però è che tu li trasferisca in musica come per mettere in atto una catarsi, e non per cavalcare la negatività che ci circonda. Qual è stato il feedback che finora hai avuto con questi brani?
Ho sofferto molto di attacchi di panico, di ansia e di ipocondria. Ho spesso e volentieri ricorso a metodi orientali, di medicina ayurvedica, ho fatto chiacchierate con Jodorowsky e messo in atto la teoria panica della auto-violenza psicologica, ovvero fare quello che hai paura di fare. Tutto è nato in maniera appunto psicomagica, dovevo scrivere quello che provavo quando avevo un forte attacco di ansia. Così è nata Io c’ho l’ansia, in maniera del tutto spontanea e pulita, senza pensare minimamente potesse poi diventare un tormentone che mi ha portato davvero tanta fortuna. Sono stato forse il primo a dire di avere l’ansia e quindi credo di avere dato coraggio a molte ragazze e ragazzi che si vergognavano di questo problema, che, credimi, ti blocca le spalle ed il cervello. Io l’ho descritta in maniera divertita, grottesca, paranoicamente colorata, anche musicalmente è uscita felice. Io credo che avere l’ansia sia una grande fortuna. Ti porta a scappare da determinati pericoli che solo la sensibilità di una persona ansiosa possono captare. Io c’ho l’ansia continua ad essere il mio maggior tormentone e guai se non lo faccio nei concerti, seguo dicendo che passa tutto con colori e cioccolata. Due ragazzi anni fa mi hanno citato nelle loro tesi di laurea proprio per questa leggerezza che ho avuto nello sdrammatizzare un grande problema. Hanno riconosciuto in me questa cosa ed io ne sono stato fiero e felice. Poi Sociopatica e Ipocondriaco sono un po’ come Rambo 2 e Rambo 3, non pensati e volutamente scritti, ma ormai la mia mente era viziata e forse non più sincera come la prima volta, anche se Sociopatica in radio è andata benissimo e nei live fa ballare tanto con questo andamento ska.
Un altro tema molto attuale che hai affrontato è quello sulla violenza delle donne. Vuoi parlarci del tuo brano Il pigiama con le stelle rosse e blu?
Già nel mio primo album India Londinese avevo trattato questa violenza stupida e subdola con la canzone Killer, brano rock e pieno di sfumature dark, noir. Il forte richiamo alla letteratura dei primi dell’800. Stevenson, Doyle, il dualismo filosofico e la bellezza della medusa. In Killer descritto come in un film di Hitchcock, atto e scena, spettatori e gatti intenti solo a fregare la lisca di pesce marcio mentre tutti fermi compreso Dio a fare da comparse a questa violenza disumana. Con il Pigiama a stelle rosse e blu descrivo il dopo. Ma anche la solitudine e la violenza che subentrano quando un rapporto finisce e se ne va a benedire. È tutto più dolce, adolescenziale e tenero con quello sfogo umano, contemplato e spontaneo, da copione, che succede o è successo ad ognuno di noi. Anche una parola sbagliata è violenza.
Ti va di parlarci della genesi del tuo ultimo singolo Dove vanno gli eschimesi? Come ti è venuta l’idea del concept del videoclip?
Tengo molto a cuore la questione ecologica, antropologica e naturalista della fauna e della flora mondiale. Credo che il pericolosissimo esemplare chiamato uomo stia facendo poco i conti con il sistema nervoso dell’intero pianeta. Ormai siamo di plastica e ferro. Amiamo il mare ma ci pisciamo e lo sporchiamo. Adoriamo la montagna ma la seviziamo in maniera atroce con pic-nic poco alternativi e da zozzoni. Stiamo iniziando ad avere la pretesa di intrufolarci ovunque senza bussare né al sole né alla notte. Siamo razzi spaziali impazziti sempre in cerca di un primato da superare. Dove vanno gli eschimesi? parla di questo: è un brano ecologico e multirazziale. Nel video bambini di razze diverse si tengono per mano facendo un semplice girotondo. È la metafora del rispetto. Acqua come purificazione e un Cupido ubriaco che lancia frecce a caso e si innamora di Dio. Quindi l’amore che torna a casa perché è stufo di farsi sbattere da chi non merita nulla e si nasconde in sacchi di immondizia e plastica nera. Gli elefanti scappano, hanno paura che qualche stronzo di bracconiere gli tagli le zanne per fare una collana da esporre in qualche vetrina di Parigi. Siamo diventati predatori di cose sbagliate. Invece di pescare il bene, i sorrisi, amore, abbracci, cerchiamo odio, vendetta, cattiveria. Molti hanno ancora il difetto di volere a tutti i costi comperare il mondo. Ma il mondo è di tutti quelli che stanno bene assieme e lo amano costruendo, non spaccando e bruciando.
“Un libro è un amico che ti risponde, la televisione un amico che ti prende per i fondelli”, hai dichiarato in un’intervista. Sei un amante della cultura a tutto tondo, ma allo stesso tempo conosci i meccanismi televisivi dal loro interno, non è vero?
Passo ogni attimi con i libri. Quando sono in tour leggo, al bagno, mentre mangio. Sapere è fondamentale. Io vivo e baso sulla curiosità ogni istante dei miei respiri. Sono onnivoro. Mangio pagine di arte, romanzi, psicologia, architettura. La televisione è una vetrina. Io ci vado per farmi vedere e per cantare le mie canzoni. Questo è il messaggio che vado a dare. Non vado a cercare fidanzate, non vado a cantare canzoni che non sono state scritte e composte da me, non mi perdo per isole e non vado a fare i muffin pubblicamente, quelli li faccio per gli amici e per i fans che vengono ai miei live e si aspettano il solito lancio. Deve avere tutto una coscienza, la mia è incoscienza perché so benissimo di non essere alla moda, ma così potrei rischiare di inventare una moda. Nonostante sia lontano parente di Vivienne Westwood, odio queste passerelle di apparenze senza essere. Ripeto: io vado a cantare la mia vita e ci metto la faccia. Il buonsenso è quello che manca. In ogni caso io leggo o ascolto musica, la tv la tengo solo per poggiarci gli spaghetti caldi quando non so dove posarli.
Fatidica domanda: hai dei progetti in porto? Dove e quando potremo vederti nelle prossime settimane?
Io sono la sorpresa di me stesso. Attualmente sto registrando nuovissime cose, sono in qualche trasmissione televisiva e in radio. Live tornerò non appena avrò qualcosa di nuovo da dire. Nel frattempo mi strappo le maglie con le spille da balia, pulisco i cappelli e le chitarre per essere pronto con una nuova storia di fumetti. Ogni tanto fermarsi a pensare, o meglio, non pensare a nulla fa bene. Desidero una nuova vita nei boschi per poi tornare alla città più carico e stronzo. Spero di essere per questa occasione colorato, punk, elettrico e dolce come un bambino, il solito, che scappa con le mani sporche di marmellata con le macchie di rossetto sulle guance.
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L’articolo Tutti i colori di Patrizio Maria: leggi qui l’intervista proviene da Musicisti Emergenti.