Rappresentare Tosca al giorno d’oggi risulta un’operazione quanto mai complessa, come accade d’altronde per tutti i grandi titoli di repertorio che non hanno mai smesso di essere rappresentati dalla data della loro prima messinscena. Capita spesso infatti, che nel tentativo di proporre qualcosa di alternativo, di non visto, si cerchino delle soluzioni originali, anche se non è sempre scontato che queste soluzioni abbiano un esito positivo e siano apprezzate da buona parte del pubblico, ma anzi rischino di risultare pretenziose nelle intenzioni e confuse nel risultato.
È esattamente quanto accaduto alla produzione di Tosca andata in scena al teatro Coccia, nelle date del 17 e 19 gennaio. Le scene di Justin Arienti (autore anche dei costumi) evocavano vagamente le ambientazioni della vicenda: una serie di gradini costituivano la base della scenografia in tutti e tre gli atti ed erano completate da alcuni elementi simbolici che differenziavano gli atti tra loro. L’effetto però risultava un po’ incerto, come se alcune cianfrusaglie fossero state ammassate ai lati della scena. Questa è stata la sensazione sia per i candelabri nel primo atto che per le bottiglie e i calici nel secondo. In particolare nel primo atto, il tentativo di ricreare una chiesa è particolarmente mal riuscito, con un incensiere gigante che pioveva dall’alto. Il terzo atto, poi, era completamente spoglio: oltre le gradinate si vedeva solo il fondo azzurro del palcoscenico. Come può lo spettatore intuire vagamente che ci si trova a Castel Sant’Angelo o, più in generale, in una prigione? Non si sa.
In questa scenografia disordinata si installa la regia, ancora più confusa, di Fabio Ceresa. Il giovane regista è bravo nel muovere solisti e masse ed ha alcune intuizioni interessanti, in particolare la scelta di far morire Scarpia nella vasca da bagno, scena di marattiana memoria. Gli spunti però sono tanti e pasticciati tra di loro: le pantofole rosse indossate da Scarpia, a ricordare le calzature papali (se le indossa il papa come potrebbe indossarle il suo capo della polizia?) ed anche la marchesa Attavanti che compare in scena cantando la canzone del pastorello. Parecchie anche le vere e proprie ingenuità: ad esempio quando Tosca grida a Scarpia “Non toccarmi demonio” e lui è dall’altra parte della scena, oppure quando la protagonista si getta da Castel Sant’Angelo tirandosi dietro il cadavere del povero Cavaradossi, ipotesi piuttosto inverosimile.
Anche la compagnia di canto, nonostante la buona volontà, volendo fare una considerazione generale, non ha convinto del tutto.
Il ruolo della protagonista era affidato al soprano rumeno Cellia Costea, una professionista che canta molto in Europa e che solo da qualche anno sta iniziando a calcare anche i nostri palcoscenici. La sua non è la Tosca del secolo, ma sicuramente la prestazione è stata convincente sia dal punto di vista vocale che attoriale. La Costea inoltre beneficia di un physique du rôle molto adatto al personaggio di Tosca. Belli anche i costumi disegnati per lei da Arienti.
Lascia meno soddisfatti, invece, la prova di Lorenzo Decaro nei panni di Cavaradossi. Il tenore al primo colpo d’occhio si presenta bene sulla scena: ha una figura gradevole e si muove con disinvoltura. Ma nonostante si senta il lavoro di concertazione per le dinamiche e la costruzione del ruolo (bello il piano alla fine di “Recondita armonia” e le finezze in alcune frasi del duetto con Tosca nel primo atto), l’emissione è talvolta forzata e la voce risulta spesso coperta dall’orchestra e dagli altri solisti.
Ivan Inverardi ha interpretato uno Scarpia pingue e viscido, completamente inebriato dai vizi della carne. Durante il secondo atto indossa solo una vestaglia, che prova a togliersi nel momento in cui esclama “Tosca, finalmente mia!”, con un movimento che involontariamente strappa un sorriso e che ricorda la peggiore iconografia del maniaco sessuale. Ma questo è da imputare più alla regia che al povero Inverardi, che invece ha cantato con voce piena e importante, ricevendo meritati applausi dal pubblico a chiusura del sipario.
Di buon livello i comprimari, a iniziare dal Sagrestano di Davide Pellissero, che è riuscito a rendere il suo personaggio leggero senza indulgere nelle tipiche “caccole” di cui spesso abusano i cantanti che affrontano questo ruolo.
Positiva anche la prova di Daniele Cusari come Angelotti, che ha sfoggiato una bella voce da basso ed è risultato credibile anche dal punto di vista interpretativo.
Saverio Pugliese, uno spettrale Spoletta, ha convinto di più rispetto al precedente ascolto nell’Otello comasco, sia per presenza scenica che vocale.
Corretti lo Sciarrone di Massimilano Galli e il carceriere di Radu Pintilie.
Corretta anche Alessandra Ferrari nelle vesti di Pastorello/marchesa Attavanti, a parte una piccola incertezza iniziale e un’orrida parrucca bionda.
A dirigere l’Orchestra Filarmonica del Piemonte il giovane direttore Valerio Galli, che ha una solida formazione nel repertorio pucciniano. Proprio per questo motivo lasciano perplessi alcune sue scelte, come la lentezza estenuante del duetto Cavaradossi-Tosca nel primo atto, e un’orchestra sempre tenuta a un livello che tendeva a coprire le voci.
Positiva infine la prova del coro Schola Cantorum san Gregorio Magno diretto da Mauro Rolfi.
Lo spettacolo ha registrato gradimento da parte del pubblico anche se non ai livelli di entusiasmo come nella scorsa produzione della Norma. Ridicola invece la claque che ha tentato di innescare l’applauso addirittura a scena vuota dopo il duetto Tosca-Cavaradossi del primo atto e in altri momenti inopportuni.
Roberta Pacifico (Operaclick)